Saturday, 6 September 2014

Mentimi pure, non mi importa

“Del vero più bella è la menzogna” scrisse un nostro poeta barocco. Tutta l’arte, del resto, è una dolce sapiente menzogna che prova a dire verità un po’ meno ovvie.

Ma siamo  disposti a farci mentire anche dalle fotografie? Qualcuno chiede addirittura alle fotografie, a tutte le fotografie, di mentirci?

Statisticamente, devo ammettere di sì. Ogni volta che si discute di una fotografia che si sa, o si sospetta, essere stata “costruita”, inscenata, recitata, all’insaputa di chi la guarda (e i casi sono tanti, ahinoi…), qualcuno prova subito a chiudere la discussione dicendo “non m’importa nulla se la scena che vedo è stata simulata, conta l’emozione che questa foto mi trasmette”.

Solitamente succede con il Miliziano di Capa: un classico, un evergreen, sono reduce dall’ennesima discussione su Facebook su questo.

Più appassionante un’altra discussione sempre su Facebook a proposito di una grande fotografia, regina del finto: il Baiser de l’Hotel de ville di Robert Doisneau. La cui storia è nota: faceva parte di un reportage uscito su Life e dedicato alla dolce consuetudine dei baci per strada a Parigi che tanto stupivano i puritani americani.

Bene, è ormai noto che quelle foto furono recitate da attori scritturati da Doisneau, che però lo ammise solo quarant’anni più tardi, di malavoglia, solo per rintuzzare le pretese di risarcimento avanzate da una coppietta che sosteneva di essere proprio quella sorpresa nel gesto d’amore per eccellenza.

Dicevo, la proporzione tra i sostenitori della linea “non mi interessa se è una finzione, perché mi emoziona”, e quelli che invece, come me, pensano che una scena recitata, spacciata per presa dal vero e poi smascherata, non dia più le stesse emozioni che voleva dare, quella proporzione è grosso modo di 8 contro 2.

Pertanto mi arrendo alla vox populi: le fotografie, la maggioranza delle persone le guarda e le apprezza così, senza chiedersi nulla sulla loro genesi, sui loro scopi, sulla loro funzione. Devo prenderne atto.  Non senza farmi qualche domanda, però. Rileggo allora le opinioni dei “non mi interessa”. La più sensata suona più o meno così.

“Anche al cinema ti emozioni per un bacio, eppure sono attori”. Sì, ma quando vai al cinema lo sai già che quelli sono attori. Salvo qualche documentario, i film sono sempre delle messinscena. Ti emozioni perché entri in modalità “sospensione temporanea di incredulità” e ti godi la storia come se fosse vera, pur sapendo benissimo che è una finzione. Nessuno mente a nessuno.

Senza questa modalità, neanche il teatro sarebbe mai esistito. Dunque benissimo. Ma vale anche per la fotografia? Credo di sì, in certi casi, ma solo se si presenta nelle stesse condizioni. Le fotografie di fiction esistono. In fondo ogni ritratto in posa lo è. Le fotografie di moda, quelle della pubblicità, sono finzioni recitate. C’è un intero genere fotografico d’autore che prende il nome di staged.

Ma devo saperlo, se la foto che guardo è la foto di una recita,  se è una specie di film immobile. Qualcuno deve dirmelo. Oppure deve essere reso evidente dal contesto che me la presenta, o dalle caratteristiche del medium dove la incontro (su Vogue non mi aspetto reportage “dal vero” ma scenografie con modelle).


Ma non è sempre così facile. La natura, la storia della fotografia sollecitano per default un altro atteggiamento nel lettore: una fotografia normalmente viene letta come lo specchio di qualcosa che è accaduta nel mondo fisico, e che il fotografo ha semplicemente visto e registrato. Se vedo la foto di un soldato morente, soprattutto su un giornale di informazione, penso per prima cosa che sia la foto di un soldato che moriva davvero.

Qualche dubbio tuttavia può ancora venire. Ma nel caso del Baiser il giornale stesso che mostrava le foto pensò bene di toglierli, i dubbi.

Nel servizio che uscì su Life il 20 giugno del 1950 (lo potete sfogliare integralmente via Google Libri) il testo non firmato che accompagnava il servizio diceva, testualmente: “…Doisneau, che prese le fotografie non in posa che vedete in queste pagine…”.

Life insomma suggerì al lettore di godere di queste immagini non come fossero un film o una commedia, ma proprio perché erano “pezzi di realtà” colti di sorpresa da un intenerito guardone.

Ma per forza. Vi chiedo: se Life invece di scrivere il falso, e cioè più o meno: “A Parigi, a differenza che a new York, ci si bacia per strada. Il grande Doisneau ci mostra come, in queste fotografie colte di sorpresa” avesse scritto il vero, cioè: “A Parigi, a differenza che a new York, ci si bacia per strada. Abbiamo chiesto al grande Doisneau di mostrarci come, e lui ha chiesto ad alcuni amici di recitare questa dolce abitudine per voi”, dite, e siate sinceri: questa foto vi avrebbe commosso allo stesso modo, come poi commosse milioni di persone?

Life non poteva usare la seconda formula perché era un rotocalco di informazione. Il più venduto rotocalco della sua epoca. E nei suoi slogan prometteva di far “vedere il mondo, vedere la vita”. Non di far vedere un film con attori che recitano il mondo e la vita. Quelle foto dovevano apparire, ed essere presentate, come “scene rubate”.

E Doisneau, non c’è che dire, è stato abilissimo. La foto del bacio davanti al municipio, diventata forse la cartolina più lacrimata del mondo, è disseminata di segni visuali che suggeriscono “vedi? Questa è una fotografia colta di sorpresa!”. Il punto di vista insolito, dal tavolino del dehors di un bistrot, le figure mosse, tagliate ai bordi, la presenza ingombrante di una figura in primo piano sulla sinistra, sfocata, un classico “errore” fotografico, sono tutti stratagemmi convocati per funzionare come “effetti di verità”.

Non era facile smascherarle, eppure quelle foto erano in posa. Lo sapeva ovviamente Doisneau, lo sapevano anche gli editor di Life? Be’, non conta chi sia stato, è un fatto che qualcuno ha comunque mentito ai lettori.

Tuttavia tutto questo “non importa”, ai molti dei miei gentili interlocutori. Mi è stato risposto, perfino con una certa impazienza, che le mie osservazioni sulla fabbricazione di quella foto sono “noiosi legalismi”; mi è stato chiesto, perfino con qualche irritazione, di smettere di rompere il sogno.

Per carità, non voglio rompere i sogni a nessuno. Ma siamo sicuri che le fotografie siano sogni? Sensazioni libere? Pure emozioni? Davvero fra la foto di una scena recitata e quella di una scena semplicemente vista non c’è alcuna differenza?

Ma allora, poveri fotoreporter, perché vanno in giro per il mondo rischiando a volte la vita, visto che potrebbero inscenare i loro reportage nel giardino di casa, con un po’ di amici e qualche costume, dove è anche più facile fingere scene “emozionanti”?

Rifiutarsi di dare importanza alla costruzione dell’immagine e ai suoi “trucchi”, anche quando qualcuno te li mostra, mi fa pensare che molti di noi siano rimasti fermi all’infanzia, quando piangevamo per la morte della mamma di Bambi perché non riuscivamo bene a distinguere il vero dal finto.

“Papà, ma quel signore muore davvero?”, in genere i bambini smettono di fare queste domande verso i sei anni. Per molti di noi invece è come se tornare a quello stadio di stupore infantile fosse l’unico modo per riuscire a emozionarci di fronte a un’immagine.

Badate bene, non sto dicendo che un racconto fotografico “costruito” sia una disprezzabile menzogna da buttare nella pattumera della storia. Molti storici reportage d’autore sono tutt’altro che “spontanei”, eppure sono fatti con grande sapienza.

Le photo story di cui Eugene Smith fu un maestro, per fare un esempio, erano una complessa costruzione narrativa in cui il soggetto, anche se non era un attore, recitava se stesso per la fotocamera. Molti indizi lo facevano capire al lettore. Era ovvio che Gene Smith aveva passato un certo tempo col dottor Ceriani o col dottor Schweitzer, e il lettore sapeva che i due dottori erano consapevoli e d’accordo nell’essere fotografati.

Del resto, dentro le stesse foto di Smith si potevano scoprire segnali non verbali che indicavano al lettore meno ingenuo che la scena non era “presa di nascosto”, non era spontanea ma costuita. Impossibile, per dire, fotografare il dottor Ceriani in primissimo piano mentre si fa un té senza che lui se ne accorga, e se se ne accorge allora il lettore sa che in qualche modo si è messo in posa. L’illusione del fotografo osservatore invisibile, se mai qualcuno se l’era fatta, si rompe.

Qualcuno decifrava la semi-fiction, qualcuno no. Che ne facciamo noi, allora? Possiamo goderne lo stesso?

Sì, io penso che sia possibile godere di una bugia visuale, ma solo quando l’abbiamo smascherata. E anche lì, non potremo più godere della verità che cercava di raccontarci, ma appunto, della sua bugia: ammireremo l’abilità del fotografo come falsario, come regista, come sceneggiatore.

Ma Doisneau nelle foto di quel servizio ha simulato con grande maestria tutti i segnali visuali della foto presa di nascosto, mentre non lo era, e quel che è peggio garantiva esplicitamente di non esserlo. Difficile non considerare questo un inganno al lettore.

Eppure anche in un caso così manifesto di insincerità, scatta il “non importa, basta l’emozione”.

Verrebbe da pensare, insomma, che come i bambini molti di noi non abbiano ben chiara la differenza fra fiction e testimonianza. Ma non è così.

Quella differenza è chiara a tutti. Semplicemente, quando si tratta di una fotografia, molti di noi che pure non tollererebbero mai l’ambiguità fra fiction e testimonianza in un telegiornale, o in un libro, abbassano la guardia. Se invece dii intervistare Renzi il Tg1 intervistasse un attore suo sosia, scoppierebbe un bel casino. Se un editore giurasse che Tolstoj ha assistito veramente, in quella stazione, al suicidio di Anna Karenina, scoppierebbero grasse risate.

Ma quando c’è di mezzo una fotografia, quel confine tra fiction e testimonianza “non interessa più”. Perché? Tento una risposta: perché la fotografia appartiene, nell’opinione comune e purtroppo anche in quella competente di molti critici e studiosi, esclusivamente al campo dell’espressione, della creazione artistica.

La fotografia equivarrebbe in tutti e per tutto a un dipinto. Il fatto che il suo punto d’origine sia un prelievo visuale dal reale viene relegato a mero dettaglio tecnico, a scelta di uno strumento come un altro, come preferire i colori a olio agli acquerelli.

La fotografia sarebbe insomma la pura e semplice traduzione visiva dei sentimenti, dei pensieri, delle visioni di un creatore. Come un dipinto. Non ci interessa molto, in effetti, se non come curiosità romanzesca, se la Ragazza con la chitarra di Vermeer sia esistita davvero, e se sapesse suonare la chitarra o facesse solo finta. Bene, in fotografia per molti è la stessa cosa.

Ma questo significa che, dopo 175 anni dalla sua esposizione al mondo, la novità dirompente dell’immagine fotografica non è stata ancora compresa dai più: parlo dell’assoluta novità antropologica degli ultimi due secoli, per dirla con Barthes, ossia di un’immagine che porta con sé, in qualche modo, l’impronta visiva degli oggetti del mondo, la traccia sporca della realtà.

Il “cordone ombelicale” con il reale è ciò che fa di una fotografia una fotografia. Se quel cordone, per quanto tenue e contraddittorio, sospetto e incapace di garantire un senso univoco, non esistesse, non sarebbe una fotografia. Nessuna obiezione per quanto sensata (la fotografia non è la realtà ma una sua immagine deformata, la traccia si confonde e si intreccia con le scelte soggettive del fotografo) può cancellare questa evidenza.

Bene, questa sacrosanta “anomalia” per tanti non conta, non interessa, non esiste, forse perfino inquieta e disturba.

La fotografia è ancora per tante persone, che pure la usano e la consumano tutti i giorni, un Ufo, un oggetto sconosciuto che si può accettare solo normalizzandolo in vecchi schemi, riassorbendolo nel generoso grembo dell’ideologia dell’arte.

Un’arte, però, che sia solo un’emozione privata, senza storia, senza contesto, senza società, senza etica. Un’arte disincarnata, di pura emozione, anzi di pura evasione, un rifugio caldo per non pensare ad altro.

Dire “questa foto è arte”, più che una consacrazione estetica, mi sembra ormai solo un modo per tirarsi fuori dallo scomodo dovere di chiederci cosa vuole da noi la fotografia che stiamo guardando.

Una fotografia, anche la più “astratta“, ci chiede sempre di essere lettori attivi, di prendere posizione sulla realtà. E questo per molti è faticoso, imbarazzante, mette a disagio. Mentre contemplare un’opera d’arte, nell’opinione comune, ci chiede solo di restare passivi e esclamare “che belloooo!” abbandonandoci a una dimensione estatico-estetica.

Va di moda dire che la fotografia è morta. A dispetto della sua veneranda età temo che, come oggetto culturale, non sia mai davvero nata.


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