“Del vero più
bella è la menzogna” scrisse un nostro poeta barocco. Tutta l’arte, del resto,
è una dolce sapiente menzogna che prova a dire verità un po’ meno ovvie.
Ma siamo disposti a farci mentire anche dalle
fotografie? Qualcuno chiede addirittura alle fotografie, a tutte le fotografie,
di mentirci?
Statisticamente,
devo ammettere di sì. Ogni volta che si discute di una fotografia che si sa, o
si sospetta, essere stata “costruita”, inscenata, recitata, all’insaputa di chi
la guarda (e i casi sono tanti, ahinoi…), qualcuno prova subito a chiudere la
discussione dicendo “non m’importa nulla se la scena che vedo è stata simulata,
conta l’emozione che questa foto mi trasmette”.
Solitamente
succede con il Miliziano di Capa: un classico, un evergreen, sono reduce
dall’ennesima discussione su Facebook su questo.
Più
appassionante un’altra discussione sempre su Facebook a proposito di una grande
fotografia, regina del finto: il Baiser de l’Hotel de ville di Robert Doisneau.
La cui storia è nota: faceva parte di un reportage uscito su Life e dedicato
alla dolce consuetudine dei baci per strada a Parigi che tanto stupivano i
puritani americani.
Bene, è ormai
noto che quelle foto furono recitate da attori scritturati da Doisneau, che
però lo ammise solo quarant’anni più tardi, di malavoglia, solo per rintuzzare
le pretese di risarcimento avanzate da una coppietta che sosteneva di essere
proprio quella sorpresa nel gesto d’amore per eccellenza.
Dicevo, la
proporzione tra i sostenitori della linea “non mi interessa se è una finzione,
perché mi emoziona”, e quelli che invece, come me, pensano che una scena
recitata, spacciata per presa dal vero e poi smascherata, non dia più le stesse
emozioni che voleva dare, quella proporzione è grosso modo di 8 contro 2.
Pertanto mi
arrendo alla vox populi: le fotografie, la maggioranza delle persone le guarda
e le apprezza così, senza chiedersi nulla sulla loro genesi, sui loro scopi,
sulla loro funzione. Devo prenderne atto.
Non senza farmi qualche domanda, però. Rileggo allora le opinioni dei
“non mi interessa”. La più sensata suona più o meno così.
“Anche al
cinema ti emozioni per un bacio, eppure sono attori”. Sì, ma quando vai al cinema
lo sai già che quelli sono attori. Salvo qualche documentario, i film sono
sempre delle messinscena. Ti emozioni perché entri in modalità “sospensione
temporanea di incredulità” e ti godi la storia come se fosse vera, pur sapendo
benissimo che è una finzione. Nessuno mente a nessuno.
Senza questa
modalità, neanche il teatro sarebbe mai esistito. Dunque benissimo. Ma vale
anche per la fotografia? Credo di sì, in certi casi, ma solo se si presenta
nelle stesse condizioni. Le fotografie di fiction esistono. In fondo ogni
ritratto in posa lo è. Le fotografie di moda, quelle della pubblicità, sono
finzioni recitate. C’è un intero genere fotografico d’autore che prende il nome
di staged.
Ma devo
saperlo, se la foto che guardo è la foto di una recita, se è una specie di film immobile. Qualcuno
deve dirmelo. Oppure deve essere reso evidente dal contesto che me la presenta,
o dalle caratteristiche del medium dove la incontro (su Vogue non mi aspetto
reportage “dal vero” ma scenografie con modelle).
Ma non è sempre
così facile. La natura, la storia della fotografia sollecitano per default un
altro atteggiamento nel lettore: una fotografia normalmente viene letta come lo
specchio di qualcosa che è accaduta nel mondo fisico, e che il fotografo ha
semplicemente visto e registrato. Se vedo la foto di un soldato morente,
soprattutto su un giornale di informazione, penso per prima cosa che sia la
foto di un soldato che moriva davvero.
Qualche
dubbio tuttavia può ancora venire. Ma nel caso del Baiser il giornale stesso che
mostrava le foto pensò bene di toglierli, i dubbi.
Nel servizio
che uscì su Life il 20 giugno del 1950 (lo potete sfogliare integralmente via
Google Libri) il testo non firmato che accompagnava il servizio diceva,
testualmente: “…Doisneau, che prese le fotografie non in posa che vedete in
queste pagine…”.
Life insomma
suggerì al lettore di godere di queste immagini non come fossero un film o una
commedia, ma proprio perché erano “pezzi di realtà” colti di sorpresa da un
intenerito guardone.
Ma per forza.
Vi chiedo: se Life invece di scrivere il falso, e cioè più o meno: “A Parigi, a
differenza che a new York, ci si bacia per strada. Il grande Doisneau ci mostra
come, in queste fotografie colte di sorpresa” avesse scritto il vero, cioè: “A
Parigi, a differenza che a new York, ci si bacia per strada. Abbiamo chiesto al
grande Doisneau di mostrarci come, e lui ha chiesto ad alcuni amici di recitare
questa dolce abitudine per voi”, dite, e siate sinceri: questa foto vi avrebbe
commosso allo stesso modo, come poi commosse milioni di persone?
Life non
poteva usare la seconda formula perché era un rotocalco di informazione. Il più
venduto rotocalco della sua epoca. E nei suoi slogan prometteva di far “vedere
il mondo, vedere la vita”. Non di far vedere un film con attori che recitano il
mondo e la vita. Quelle foto dovevano apparire, ed essere presentate, come
“scene rubate”.
E Doisneau,
non c’è che dire, è stato abilissimo. La foto del bacio davanti al municipio,
diventata forse la cartolina più lacrimata del mondo, è disseminata di segni
visuali che suggeriscono “vedi? Questa è una fotografia colta di sorpresa!”. Il
punto di vista insolito, dal tavolino del dehors di un bistrot, le figure
mosse, tagliate ai bordi, la presenza ingombrante di una figura in primo piano
sulla sinistra, sfocata, un classico “errore” fotografico, sono tutti
stratagemmi convocati per funzionare come “effetti di verità”.
Non era
facile smascherarle, eppure quelle foto erano in posa. Lo sapeva ovviamente
Doisneau, lo sapevano anche gli editor di Life? Be’, non conta chi sia stato, è
un fatto che qualcuno ha comunque mentito ai lettori.
Tuttavia
tutto questo “non importa”, ai molti dei miei gentili interlocutori. Mi è stato
risposto, perfino con una certa impazienza, che le mie osservazioni sulla
fabbricazione di quella foto sono “noiosi legalismi”; mi è stato chiesto,
perfino con qualche irritazione, di smettere di rompere il sogno.
Per carità,
non voglio rompere i sogni a nessuno. Ma siamo sicuri che le fotografie siano
sogni? Sensazioni libere? Pure emozioni? Davvero fra la foto di una scena
recitata e quella di una scena semplicemente vista non c’è alcuna differenza?
Ma allora,
poveri fotoreporter, perché vanno in giro per il mondo rischiando a volte la
vita, visto che potrebbero inscenare i loro reportage nel giardino di casa, con
un po’ di amici e qualche costume, dove è anche più facile fingere scene
“emozionanti”?
Rifiutarsi di
dare importanza alla costruzione dell’immagine e ai suoi “trucchi”, anche
quando qualcuno te li mostra, mi fa pensare che molti di noi siano rimasti
fermi all’infanzia, quando piangevamo per la morte della mamma di Bambi perché
non riuscivamo bene a distinguere il vero dal finto.
“Papà, ma
quel signore muore davvero?”, in genere i bambini smettono di fare queste
domande verso i sei anni. Per molti di noi invece è come se tornare a quello
stadio di stupore infantile fosse l’unico modo per riuscire a emozionarci di
fronte a un’immagine.
Badate bene,
non sto dicendo che un racconto fotografico “costruito” sia una disprezzabile
menzogna da buttare nella pattumera della storia. Molti storici reportage
d’autore sono tutt’altro che “spontanei”, eppure sono fatti con grande
sapienza.
Le photo
story di cui Eugene Smith fu un maestro, per fare un esempio, erano una
complessa costruzione narrativa in cui il soggetto, anche se non era un attore,
recitava se stesso per la fotocamera. Molti indizi lo facevano capire al
lettore. Era ovvio che Gene Smith aveva passato un certo tempo col dottor
Ceriani o col dottor Schweitzer, e il lettore sapeva che i due dottori erano
consapevoli e d’accordo nell’essere fotografati.
Del resto,
dentro le stesse foto di Smith si potevano scoprire segnali non verbali che
indicavano al lettore meno ingenuo che la scena non era “presa di nascosto”,
non era spontanea ma costuita. Impossibile, per dire, fotografare il dottor
Ceriani in primissimo piano mentre si fa un té senza che lui se ne accorga, e
se se ne accorge allora il lettore sa che in qualche modo si è messo in posa.
L’illusione del fotografo osservatore invisibile, se mai qualcuno se l’era
fatta, si rompe.
Qualcuno
decifrava la semi-fiction, qualcuno no. Che ne facciamo noi, allora? Possiamo
goderne lo stesso?
Sì, io penso
che sia possibile godere di una bugia visuale, ma solo quando l’abbiamo
smascherata. E anche lì, non potremo più godere della verità che cercava di
raccontarci, ma appunto, della sua bugia: ammireremo l’abilità del fotografo
come falsario, come regista, come sceneggiatore.
Ma Doisneau
nelle foto di quel servizio ha simulato con grande maestria tutti i segnali
visuali della foto presa di nascosto, mentre non lo era, e quel che è peggio
garantiva esplicitamente di non esserlo. Difficile non considerare questo un
inganno al lettore.
Eppure anche
in un caso così manifesto di insincerità, scatta il “non importa, basta
l’emozione”.
Verrebbe da
pensare, insomma, che come i bambini molti di noi non abbiano ben chiara la
differenza fra fiction e testimonianza. Ma non è così.
Quella
differenza è chiara a tutti. Semplicemente, quando si tratta di una fotografia,
molti di noi che pure non tollererebbero mai l’ambiguità fra fiction e
testimonianza in un telegiornale, o in un libro, abbassano la guardia. Se
invece dii intervistare Renzi il Tg1 intervistasse un attore suo sosia,
scoppierebbe un bel casino. Se un editore giurasse che Tolstoj ha assistito
veramente, in quella stazione, al suicidio di Anna Karenina, scoppierebbero
grasse risate.
Ma quando c’è
di mezzo una fotografia, quel confine tra fiction e testimonianza “non
interessa più”. Perché? Tento una risposta: perché la fotografia appartiene,
nell’opinione comune e purtroppo anche in quella competente di molti critici e
studiosi, esclusivamente al campo dell’espressione, della creazione artistica.
La fotografia
equivarrebbe in tutti e per tutto a un dipinto. Il fatto che il suo punto
d’origine sia un prelievo visuale dal reale viene relegato a mero dettaglio
tecnico, a scelta di uno strumento come un altro, come preferire i colori a
olio agli acquerelli.
La fotografia
sarebbe insomma la pura e semplice traduzione visiva dei sentimenti, dei
pensieri, delle visioni di un creatore. Come un dipinto. Non ci interessa
molto, in effetti, se non come curiosità romanzesca, se la Ragazza con la
chitarra di Vermeer sia esistita davvero, e se sapesse suonare la chitarra o
facesse solo finta. Bene, in fotografia per molti è la stessa cosa.
Ma questo
significa che, dopo 175 anni dalla sua esposizione al mondo, la novità
dirompente dell’immagine fotografica non è stata ancora compresa dai più: parlo
dell’assoluta novità antropologica degli ultimi due secoli, per dirla con
Barthes, ossia di un’immagine che porta con sé, in qualche modo, l’impronta
visiva degli oggetti del mondo, la traccia sporca della realtà.
Il “cordone
ombelicale” con il reale è ciò che fa di una fotografia una fotografia. Se quel
cordone, per quanto tenue e contraddittorio, sospetto e incapace di garantire
un senso univoco, non esistesse, non sarebbe una fotografia. Nessuna obiezione
per quanto sensata (la fotografia non è la realtà ma una sua immagine
deformata, la traccia si confonde e si intreccia con le scelte soggettive del
fotografo) può cancellare questa evidenza.
Bene, questa
sacrosanta “anomalia” per tanti non conta, non interessa, non esiste, forse
perfino inquieta e disturba.
La fotografia
è ancora per tante persone, che pure la usano e la consumano tutti i giorni, un
Ufo, un oggetto sconosciuto che si può accettare solo normalizzandolo in vecchi
schemi, riassorbendolo nel generoso grembo dell’ideologia dell’arte.
Un’arte,
però, che sia solo un’emozione privata, senza storia, senza contesto, senza
società, senza etica. Un’arte disincarnata, di pura emozione, anzi di pura
evasione, un rifugio caldo per non pensare ad altro.
Dire “questa
foto è arte”, più che una consacrazione estetica, mi sembra ormai solo un modo
per tirarsi fuori dallo scomodo dovere di chiederci cosa vuole da noi la
fotografia che stiamo guardando.
Una
fotografia, anche la più “astratta“, ci chiede sempre di essere lettori attivi,
di prendere posizione sulla realtà. E questo per molti è faticoso,
imbarazzante, mette a disagio. Mentre contemplare un’opera d’arte,
nell’opinione comune, ci chiede solo di restare passivi e esclamare “che belloooo!”
abbandonandoci a una dimensione estatico-estetica.
Va di moda
dire che la fotografia è morta. A dispetto della sua veneranda età temo che,
come oggetto culturale, non sia mai davvero nata.
No comments:
Post a Comment